Le Virgole, un appuntamento estemporaneo fra chi ama scrivere e chi ama leggere.


Erano rosse. Ecco. Proprio come le desiderava. Proprio come le aveva sempre sognate, e non solo ad occhi aperti, le sognava anche di notte. Ma non era, il colore, la cosa importante.

La cosa più importante era quella specie di virgola bianca, quel simbolo simile a un boomerang in volo, quelle iconiche “ali di gabbiano” in finto cuoio, cucite ai lati della tomaia. Che quelle scarpe prendessero il nome proprio da delle ali, quelle di una tal Vittoria che aveva abitato l’Olimpo, lui non lo sapeva. A dodici anni non si sanno queste cose.

Si sa, però, che il modello si chiama Air Zoom e si desidera tanto proprio quello perché il simbolo tanto ammirato non è cucito solo ai fianchi della scarpa  ma, cosa altrettanto importante, è inciso anche nella suola. E ciò significa che quel marchio rimarrà impresso sulla sabbia, nel fango, nella polvere, al proprio passaggio.  Così tutti potranno vederlo.

Quella sorta di ‘segno di spunta’, replicato a terra ad ogni passo, è la prova che ha finalmente ai piedi le scarpe tanto ambite. Segno di spunta: carattere usato per indicare il concetto di “sì”. Così, lui, pur non conoscendo il significato semantico della parola “spunta”, viveva la gioia di camminare come una sequenza di: sì, sì, sì, sì…

Si girava a guardare quelle impronte, sorridente e orgoglioso, e gli sembrava che tutto andasse bene, che tutto sarebbe stato possibile con quelle scarpe ai piedi; sentiva che avrebbe potuto prendere il volo.

Poco importava avere il dubbio che fossero delle imitazioni del modello originale che aveva visto sullo smartphone di suo zio… l’importante era che sembravano identiche. Probabilmente costavano un decimo rispetto a quelle “vere”, e certamente sua madre le aveva comprate al banco del mercato del giovedì, trovando già delle difficoltà a pagarle quella cifra. Poco importava che il suo piede magro non aderisse perfettamente alla fodera interna: erano state comprate di una misura più grande perché a quell’età si cresce velocemente e non si poteva correre il rischio che dopo qualche mese gli andassero strette.  Poco importava che il tessuto a nido d’ape di cui erano fatte non fosse così “traspirante” e “antiallergico” come recitava la pubblicità.

Il ragazzo le trattava con grande cura: batteva forte le suole fra di loro prima di rientrare a casa per togliere i residui di terra rimasti nelle venature dei disegni che decoravano la suola: una sequenza di fitte righe parallele tagliate da altre righe che l’attraversavano in diagonale – come a formare una serie di “cancelletti”- e degli esagoni di varie dimensioni che circondavano il simbolo principale. Quando per pulirle non era sufficiente batterle, prendeva la spazzola di nylon, quella che la madre usava per lavare i panni, e le spazzolava, a secco o bagnando prima la suola. Comunque, almeno una volta a settimana, le lavava con acqua e sapone. E la notte le riponeva al lato del letto. Sembravano sempre nuove. Era l’ultima immagine che ogni sera vedevano i suoi occhi, prima di addormentarsi e sognare finalmente qualcosa che non fossero delle scarpe.

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Quella mattina il mare era calmo. Calmissimo. Ma la spiaggia, ancora bagnata e piena di residui, denunciava che la battigia, durante la notte, si era allargata di molto, in profondità, a causa di una tempesta. Adesso invece, il bagnasciuga si era ridotto a pochi centimetri, il ritmo dell’onda era quasi inesistente. In quell’alba di agosto, sulle rive di Scoglitti, il Mediterraneo sembrava un lago.

Con la stessa leggerezza di una barchetta di carta, una piccola scarpa rossa, arenata, era mossa dal lieve moto ondoso. Il segno di spunta bianco che vi era incastonato sopra sembrava galleggiare, dondolava dolcemente come una vela ammainata.

Più avanti l’onda, così delicata,  accarezzava dei corpi riversi sulla sabbia; sembrava non volesse disturbare il sonno di quegli uomini, di quelle donne e di quei bambini distesi e immobili. Cullava occhi sbarrati rivolti verso un cielo che non avrebbero più visto, e braccia aperte che non avrebbero stretto più nessuno. Tutto era immoto, silenzioso; il movimento dell’acqua appena percettibile, più per i riflessi del sole che stava sorgendo che per il suono che produceva.

Poi un suono, e un segno: sì, …, sì, …, sì, …  Dei passi, dal ritmo claudicante e sempre più veloci, attraversando l’aria, marchiarono la sabbia. Raggiunsero la scarpa rossa.  Delle mani tremanti la accarezzarono. Un piede magro la calzò. Sul bagnasciuga apparve, allora, la sequenza esatta: sì, sì, sì, sì,…

Corri, Ismael, corri verso il tuo futuro!


Nicola Civinini, lascia Firenze a 21 anni per seguire il suo naturale istinto artistico, affinato dall’insegnamento di disegno e storia dell’arte e dalla frequenza della Facoltà di Architettura. Dopo un percorso ricco di esperienze nei giardini di varie Muse, nel 2014 scrive il testo teatrale “Foto di famiglia”, che mette in scena interpretando, da solo, otto personaggi. Ha pubblicato diversi racconti in volumi collettivi, e, nel 2019 il romanzo “Una vita senza volto”, edito da Scatole Parlanti. I suoi racconti hanno ottenuto diversi riconoscimenti, tra cui il secondo posto nella IV edizione del concorso Incrociamo le penne.

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