Le Virgole, un appuntamento estemporaneo fra chi ama scrivere e chi ama leggere.


Miya si alzò in tarda mattinata per adempiere ai preparativi della cerimonia. Trepidante, si sedette davanti allo specchio e, dopo aver guardato a lungo il viso vaporoso e ben disegnato, l’onice degli occhi, l’aggraziato collo di cigno, emise un respiro profondo e cominciò a coprire le guance, il naso, la fronte, con la polvere di riso mescolata ad acqua, come si faceva nella tradizione antica. Era un lavoro lungo e minuzioso ma Miya non sembrava stancarsi di compiere quel rito di trasformazione millenario. Quando il viso, il collo e le spalle divennero bianchi e compatti come quelli di una bambola di porcellana, chiamò la sorella Nari che l’aiutò a rendere candida anche la schiena, lasciando la nuca scoperta con la tradizionale forma a V. In Giappone, quel piccolo pezzo di pelle non contraffatto, richiamo ad altre intime nudità, era capace di scatenare la bramosia di qualunque uomo. Miya non amava i cosmetici e usò, anche per le sopracciglia, metodi dimenticati. Prese un bastoncino di carbone e, con mano sicura, tracciò un’arcuata linea, scura e ipnotica; poi disegnò il taglio degli occhi, rendendoli sensuali fonti di promesse. Era il momento di passare alle labbra. Le bastò intingere un piccolo pennello in una vaschetta contenente un infuso di fiore di cartamo, ricoperto con zucchero cristallizzato, affinché il rosso diventasse vivo e lucido, e la bocca assumesse la forma di un piccolo cuore palpitante che celava misteriose malìe.

Dopo aver osservato attentamente il proprio lavoro, per essere certa che non ci fossero sbavature, pettinò gli interminabili capelli di seta e li raccolse alla maniera tradizionale, ornandoli con monili luminosi. Si alzò e, camminando lentamente, si avvicinò al kimono adagiato sul letto. Lo indossò, strato dopo strato, facendo in modo che aderisse perfettamente al corpo minuto. Muovendosi a piccoli passi, come un cucciolo incerto, scese le scale, arrivò nell’ampia sala della casa del tè, entrò nell’accogliente stanza dove si sarebbe consumata la cerimonia, e attese l’ospite.

Poco più tardi apparve Koto, un uomo giapponese sulla cinquantina, vestito in modo elegante, di modi cortesi e affabili. Lo fece accomodare e insieme trascorsero un piacevole pomeriggio. Come tutte le geishe, Miya era un’abile intrattenitrice, colta e raffinata. I due affrontarono i più disparati argomenti e la ragazza mostrò di aver appreso alla perfezione una tradizione tramandatale da tre generazioni. Quando il tempo previsto terminò, Koto salutò Miya posando lo sguardo sulla rosa delle labbra, indugiando come se volesse dirle qualcosa, ma incapace di proferire parola di fronte a un tale miraggio.

Appena l’uomo se ne fu andato, la ragazza tornò nell’ alloggio al piano di sopra, si spogliò, deterse il viso che, respirando, ritrovò il colore originario, e si addormentò tranquilla. Il giorno seguente, nella stanza delle cerimonie, Koto l’attendeva impaziente. Miya lo invitò a sedersi, preparò il tè al gelsomino con la consueta premura, e lo intrattenne cantando e suonando. Quella sera, la proprietaria della casa del tè, le disse che Koto aveva prenotato per averla tutti i pomeriggi, per dodici mesi. Miya, nascondendo un cauto sorriso sotto la pelle bianca di riso, si ritirò.

Nell’anno che trascorse la ragazza deliziò l’uomo con l’arte della danza, della musica, del canto, della pittura, dell’eloquenza, senza che lui mai la sfiorasse. Miya si muoveva in modo elegante, sinuoso, docile, timido. Ogni gesto e movimento illuminavano la stanza, ogni parola vibrava nel petto di Koto come il canto di cento usignoli, ogni sguardo gli trafiggeva il cuore con l’impeto di mille pugnali. Quando Miya gli volgeva le spalle, l’uomo soffermava lo sguardo sulla piccola porzione di pelle nuda della nuca, ammirandone il colore ambrato, immaginando di accarezzarla, di baciarla. Quando gli si avvicinava per versargli il tè, il profumo dei capelli lo stordiva: avrebbe voluto liberarli e tessere sul proprio corpo un’infrangibile ragnatela. Desiderava vederle il viso pulito, senza la polvere di riso, prenderle le mani e svelarle la passione che lo stava divorando come un’inarrestabile marea.

Sapeva che era proibito possedere una geisha, ma si chiedeva se Miya lo considerasse un ospite come gli altri, oppure provasse qualcosa per lui. L’amore per quella donna lo stava consumando nella carne, nello spirito e, pur essendo un uomo ricco, anche negli averi, poiché trascorreva tutto il giorno pensando al momento in cui si sarebbero incontrati, trascurando il lavoro e prosciugando il conto in banca per pagare quei pomeriggi e farle costosi regali. Quella fragile bambola di porcellana lo aveva trascinato dentro una cupa ossessione dalla quale non poteva, non voleva uscire.

Arrivò il giorno dell’addio. Koto, smunto, smagrito, disperato, incapace di pensare che era giunta la sua ultima possibilità di stringere tra le braccia quella donna incantevole, rimase a guardarla da lontano, senza dire una parola, pregandola di stare immobile al centro di un raggio di sole che illuminava la stanza. Dopo uno straziante silenzio, parole trattenute troppo a lungo in un cuore inerme e indifeso, rotolarono sul pavimento, come rune rivelatrici di un delirante amore. Miya indugiò, lasciando che il nero muschiato degli occhi penetrasse in ogni poro della pelle di quell’uomo incauto e imprudente, poi si avvicinò e gli sussurrò di aspettarla all’uscita sul retro.

Dopo un’ora, Miya lo raggiunse nel cortile. Salirono su un’auto che li attendeva discreta. Trascorso un tempo che sembrava inesauribile, l’autista si fermò davanti a una piccola dimora. I due scesero e Miya invitò l’uomo ad entrare. Una morbida luce rendeva l’atmosfera carezzevole come velluto. Un letto rotondo troneggiava al centro della stanza. Miya fece accomodare Koto sul talamo, gli servì un tè, si sedette di fronte a uno specchio in modo che l’uomo potesse vederla e, senza abbandonare gli occhi di lui che erano incollati su di lei, lavò via dal viso la polvere di riso e ogni traccia di trucco. Sciolse i capelli che le ricaddero sulla schiena come fruste e cominciò a spogliarsi. Quando anche l’ultimo pezzo di stoffa cadde a terra, Miya si alzò, lentamente, rimanendo di spalle. Il riflesso di quel corpo minuto, fece fremere Koto di piacere e martirio: i seni piccoli e sodi, la flessuosa curva dei fianchi, il pube virginale di bimba. Miya si voltò e lo sguardo dell’uomo venne sfregiato dalla bellezza di un volto angelico che gli si avvicinò fino a sfiorare il suo. Il cuore di Koto tuonò nel torso dilaniato dalla passione, quasi volesse uscire per donarsi a lei e riposare nelle sue piccole delicate mani. La vista si annebbiò, il respiro si fece esitante, sospeso. Miya invitò Koto a sdraiarsi sul letto, gli salì sopra e, avvicinando le turgide labbra alle sue, prese un pugnale nascosto sotto un cuscino e, baciandolo, gli squarciò il petto, strappandogli il cuore. Petali di sangue screziarono le candide lenzuola di seta.

Dopo pochi minuti entrò Nari. Si tolse la divisa da autista, il berretto che le nascondeva gli splendidi capelli color ebano e si avvicinò alla sorella. Insieme scesero in cantina, riposero l’organo in un’ampolla trasparente che collocarono su uno scaffale, dove in altre venti ampolle trasparenti giacevano altri venti cuori. Dopo aver acceso una candela, la posero davanti alla fotografia della loro bisnonna, costretta dal padre a diventare geisha e a sposare il proprio aguzzino, che aveva infranto le regole violentandola.

Da allora le primogenite della dinastia Sato, obbligate a mascherarsi il volto e l’anima con la polvere di riso, collezionano i cuori di ogni uomo giapponese che infranga le regole dopo aver oltrepassato le soglie della casa del tè della città di Kamakura.


Teresa Di Sario, nata a Pescara nel 1966, psicologa, psicoterapeuta, vive e lavora a Roma. È maestra di danze orientali, danzatrice e coreografa. Appassionata di arte e letteratura, scrive da anni, classificandosi nelle prime posizioni in diversi concorsi, e dipinge. Questo suo racconto è pubblicato nella raccolta “AdagioMalvagio” curata dalla Libreria Mondadori di Via Piave Roma.

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