L’arte fantastica “soprareale”

Baudelaire nei suoi visionari “Paradisi artificiali” del 1860: affermava “Tutto l’universo visibile non è che un magazzino di immagini e di segni, ai quali l’immaginazione darà uno spazio ed un valore relativo, è una specie di impasto che la immaginazione deve dirigere e trasformare”.

Un’affermazione che dimostra come nell’arte vi fosse una inclinazione ad “un’arte fantastica” che può essere fatta risalire fin all’origine dell’arte moderna nel Quattrocento, e che passa per Bosch, Bruegel, Arcimboldo, Fussli, Odilon Redon e tanti altri, quasi a costituire un contraltare all’arte della razionalità e della logica. Una inclinazione che esplode in tutta la sua virulenza con il movimento dadaista nato nel 1916 a Zurigo e con il suo rifiuto degli standard artistici posto in essere attraverso opere culturali contro l’arte stessa; una inclinazione che trova ulteriore alimento nelle teorie di Freud sui sogni e sull’inconscio, nei sogni simbolici e nella metafisica di De Chirico, nelle immagini visionarie di Chagall.

Il surrealismo

Con tutti questi artisti il surrealismo, che ebbe come principale teorico il poeta André Breton, ha molti punti in comune; essi si riscontrano sia nella conclusione che fosse inaccettabile il fatto che il sogno e l’inconscio avessero avuto così poco spazio nella civiltà moderna sia nella rappresentazione degli oscuri terrori, delle lunari angosce dell’animo umano o delle sue deliranti fertilità. Nel surrealismo c’è un appello alla libertà totale dello spirito, nella persuasione che la vita e la poesia sono altrove, fuori dalle parvenze del mondo reale, tutte in una dimensione interiore nel profondo dello spirito, laddove non arriva la luce della coscienza e il controllo della ragione.

Viene così avviata una profonda revisione dell’essere, gettando scandagli profondi dentro gli abissi della vita inconscia, operando associazioni esasperate e improvvise di oggetti tra di loro alieni per averne una nuova illuminazione, sensi remoti, provocare emozioni disparate. In questo modo, il surrealismo finì per disperdere in poco tempo le domande essenziali in un gioco di emotività abissali, in una rete di eccitazioni gratuite, di sonni ipnotici o di automatismi artificiali, sfociando in un delirio di immagini che si stringono come un labirinto doloroso a imprigionare ancora di più l’uomo.

La pittura di Salvador Dalì

Nell’ambito del surrealismo, Salvador Dalì appartiene alla corrente figurativa; egli definì la sua pittura “critico-paranoica” che, semplificando, si può dire significhi “guardare un oggetto e vederne dunque dipingere un altro”. Ci si trova di fronte a una indubbia intelligenza e ad una sottile, immensa perizia tecnica, ad una incredibile fertilità rappresentativa, ma anche di fronte ad una grande mistificazione. Egli si compiace di travestimenti, di alterazioni spinte all’infinito come in una serie di specchi deformanti che richiedono una enorme pazienza per essere decifrati.

Per le sue opere si può parlare di spettacolo, per quella invenzione di capricci, di piccoli orrori, di ambigue relazioni di sensi che nella sua tensione visiva, un po’ da funambolo e da gigione intellettuale, ad alcuni possono apparire narrazioni di verità e ad altri madornali bugie, o anche tutte e due le cose insieme. Là dove c’è il vero si insinua come un tarlo anche il falso o lo stravolto, ed è questa una condizione inscindibile in Dalì di cui il pittore è il primo a compiacersi, anzi vi si crogiola. Alla fine questo piacere dell’ambiguo, del contraffatto, dell’amorfo vitalizzato sul piano di un artificio con ambivalenti visioni viziose, macabre, è difficile da sostenere. È Dalì stesso a rimanere prigioniero, come un morfinomane che non può più sottrarsi al suo veleno.

Trasferitosi a New York dopo l’invasione nazista della Francia, diventa un fenomeno di massa e la sua popolarità si lega al fatto che egli corrisponde perfettamente “all’appetito ferale per il morboso” e per le sensazioni violente. Per lui la pittura diventa uno strumento per affermarsi nello star system, un culto totalizzante di se stesso, una impresa economica guidata dalla sua compagna Gala, a tal punto che il suo nome veniva anagrammato da Salvador Dalì a Avida Dollars.

Dopo gli anni Cinquanta si dà agli effetti illusori, alle anamorfosi (rappresentazioni pittoriche realizzate secondo una deformazione prospettica che ne consente la giusta visione da un unico punto di vista, risultando invece deformate e incomprensibili se osservate da altre posizioni) e alle percezioni ambigue.

In questo stesso periodo inizia la sua fase di recupero della pittura rinascimentale e dell’iconografia cristiana, nonché di avvicinamento al misticismo, e nel 1951 realizza quello che viene considerato il suo capolavoro nel campo del tema sacro, il Cristo di San Giovanni della Croce, per il quale il pittore catalano disse di essersi ispirato a un disegno del grande santo spagnolo del Cinquecento, fondatore dell’ordine mendicante dei carmelitani scalzi, e da un sogno cosmico, che aveva per centro il nucleo di un atomo, una massa di colori che si mescolava nella sua testa.

Il disegno eseguito da San Giovanni della Croce

Un giorno del 1575, mentre è in preghiera nel Monastero dell’Incarnazione di Avila, San Giovanni della Croce, uno dei più grandi mistici cristiani, ha una visione di Cristo sulla Croce, terminata la quale, prende carta e penna per riprodurre quel che ha visto: Gesù ha la testa reclinata sul petto, il volto è appena visibile, le braccia sono sostenute da pesanti chiodi, le gambe sono piegate sotto il peso del corpo. Utilizzando un punto di vista molto insolito, l’immagine la si vede dall’angolo in alto a destra, prospettiva che ci invita a guardare Gesù sulla Croce con gli occhi di Dio Padre, commosso per l’atto supremo di donazione del Figlio.

L’interpretazione data da Dalì

Secoli dopo Salvador Dalí, assume proprio questa prospettiva accentuando lo scorcio impossibile e portando il punto di vista in alto, sull’asse verticale della croce: in questo modo si osserva Cristo in croce non da un punto di vista frontale né laterale o da sotto in su come l’iconografia tradizionale ci ha abituati, ma lo si osserva dall’alto in basso, con gli occhi del Padre Eterno. Si vede Gesù senza corona di spine, con il corpo perfetto e privo di ferite, aderente al legno della croce ma senza chiodi, privo cioè dei i simboli tradizionali della passione, per rappresentare non le sofferenze di Cristo sostenute per amore, ma la potenza salvifica della sua morte, come sorgente di un’illimitata energia di vita per l’universo, come il nucleo atomico spezzato che genera una enorme energia: ed infatti egli è leggermente inchinato verso il basso, come se guardasse quello che succede sulla terra.

Salvador Dalì, “Cristo di San Giovanni della Croce”, olio su tela, 1951

La croce sembra appesa in una sospensione metafisica, quasi onirica, giganteggia immobile nello spazio ed è protesa verso il basso in uno spazio oscuro che viene illuminato da una luce calda e radente, che proviene dall’alto ed arriva fino alla parte inferiore in cui è definito un preciso paesaggio, a significare il Padre Eterno quale sorgente di luce che illumina il mondo e rende ragione della morte del Figlio. Sull’orizzonte, c’è’ un bagliore, che colora le nuvole con effetti da aurora boreale, e che richiama quello di un’esplosione atomica, ricordo delle bombe su Hiroshima e Nagasaki, che lasciarono l’artista fortemente impressionato.

Gesù dunque è vivo, sale al Cielo con la croce proprio partendo dal bagliore di quell’esplosione e la Vera Luce di Dio illumina, attraverso il Figlio, il mondo umano rappresentato nella zona sottostante dell’opera da un paesaggio con un lago, una barca e tre pescatori, che costituisce un possibile rimando alla barca di Pietro, cioè la Chiesa, che riceve luce per navigare nel mondo, dove è inviata per illuminare le genti. Per la realizzazione del paesaggio Dalì prese a modello la spiaggia di Port Lligat, il paese dove viveva, mentre le persone sono tratte da dipinti di due artisti che ammirava molto: un disegno preparatorio di Diego Velazquez per la “Resa di Brera” per il soggetto di sinistra e una figura desunta da un quadro di Louis Le Nain per il soggetto vicino alla barca.

Salvator Dalì, Angelo in riva al lago (litografia, 1980)

Anche il tranquillo paesaggio trae origine dal bagliore dell’esplosione e viene ritratto da un punto di vista posto su un rilievo che sale dalla spiaggia con un improvviso cambio di prospettiva dal basso verso l’alto: l’artista crea una costruzione spaziale di anomalia onirica, in quanto la prospettiva in basso dovrebbe schiacciarsi e non aprirsi. In questo modo l’intera opera sembra essere vista contemporaneamente da sopra la testa del Cristo e dalla spiaggia, anche se uno sguardo più attento rileva come la logica della prospettiva inverta il punto di vista, posizionandolo al centro del bagliore dell’esplosione, come se l’osservatore si trovasse in quel punto di fuga e guardasse noi, come se fosse proprio l’energia atomica originata dall’esplosione e irradiantesi in espansione in ogni direzione.

In conclusione il Cristo di San Giovanni della Croce possiede un forte potere comunicativo, simbolico e religioso; è l’opera di un artista geniale che, dopo aver vagato errante in cerca d’assoluto, alla fine confiderà: «Il Cielo, ecco quello che la mia anima ebbra d’assoluto ha cercato durante tutta una vita che a certuni è potuta sembrare confusa e, per dirla tutta, profumata dello zolfo del demonio. […] Il Cielo non si trova né in alto, né in basso, né a destra, né a sinistra, il Cielo è esattamente al centro del petto dell’uomo che possiede la fede. P.S. In questo momento non possiedo la fede e temo di morire senza Cielo».


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