Per comprendere quanto Van Gogh abbia inciso sulle vicende dell’arte del suo tempo e su quella del Novecento e chiarire, quindi, l’enorme valore della sua creazione pittorica, bisogna partire dalla sua formazione.

Fin dall’inizio nel mondo dell’arte

Proveniva da una famiglia con molti artigiani orafi e artisti, e con tre zii mercanti d’arte; il padre era un pastore protestante che gli impartiva una educazione basata su norme severe; a sedici anni inizia a lavorare nel mercato dell’arte a livello internazionale in una grande azienda con sede all’Aia e vi rimane per sei anni spostandosi tra Londra e Parigi. È un lavoro che lo stimolava ad approfondire tematiche culturali ed artistiche, a leggere molto e a frequentare musei e collezioni d’arte: forma così la sua cultura sulla storia dell’arte in maniera onnivora e acritica sia per l’arte antica sia per quella della sua epoca.

Dal 1873 inizia a trascurare il lavoro, i suoi interessi si rivolgono sempre più verso le tematiche religiose e verso il messaggio etico e sociale delle opere del pittore Jean-François Millet, uno dei maggiori esponenti del Realismo, corrente artistica che tentava di cogliere la realtà sociale, da rappresentare nuda e cruda con meno allegorie e più attenzione ai dati di fatto.

In questo stesso periodo inizia la comunicazione che durerà per l’arco intero della sua breve vita con il fratello minore Theo, tramite lettere, un dialogo epistolare continuo tra i più poetici della storia: sfoghi, messaggi, richieste d’aiuto, dichiarazioni di fede.

Nel 1876 a 23 anni lascia il lavoro nel mercato dell’arte e diventa insegnante di lingue in una scuola di un reverendo in un sobborgo industriale alla periferia di Londra: qui fa la conoscenza con la miseria operaia, si rende conto che le condizioni del popolo nella dilagante civiltà industriale richiedono un’opera consolatrice ed evangelica, dà libero sfogo al suo misticismo religioso, coltivato sul modello del padre. Vuole predicare la Bibbia tra gli operai e i poveri, va nella zona delle miniere di carbone, tra quella gente per la quale la luce del sole non esiste, ma, impossibilitato a diventare predicatore laico, decide che se non potrà parlare ai poveri dal pulpito lo farà con i quadri e le immagini: sceglie così, con la sua solita totale completa dedizione e intransigenza il mestiere di pittore. Inizia a intravedere l’idea che nell’arte troverà il mezzo più adatto per realizzare la propria essenza.

Lo studio della tecnica pittorica

Van Gogh aveva coltivato sin da piccolo la sua vocazione pittorica, ma mai l’aveva approfondita in modo sistematico e continuativo con corsi o letture di manuali. Ora studia i nudi, usa il carboncino, per fare la mano, impara la tecnica. Si forma con lo studio e con la pratica una vastissima cultura figurativa degli antichi e dei moderni, crea un proprio elementare linguaggio, il disegno diventa sintetico e minuzioso.

Alla fine del 1881 si trasferisce all’Aia, dipinge lavoratori, pescatori, il mare, il suo studio, con un ritmo forsennato. La sua modella è Sien, cioè Christine, la ragazza ubriaca e incinta che raccoglie per strada dove si prostituiva, donna che vuole recuperare, con la quale vivere insieme e farne la sua compagna. Questa storia lo fa allontanare dai suoi amici, si degrada in coerenza con i suoi principi, cioè deve vivere, partecipare alla miseria, all’abbrutimento dei martiri della società per essere degno di loro. In lui il sentimento del cristianesimo combattivo ed evangelico si unisce al sentimento tolstoiano di giustizia e disprezzo per le convenzioni borghesi. Nonostante il suo entusiasmo l’esperienza di vita con Sien fallisce, Vincent lascia l’Aia e torna per due anni alla casa paterna.

Ha finito la sua formazione tecnica, ora il suo problema è la scelta espressiva, scrive incessantemente a Theo delle sue intuizioni sul valore autonomo e determinante della forma e del colore che non devono essere mezzi accademici per banali illustrazioni, ma devono esprimere la realtà nel suo significato interiore. Con fratello insiste sulla differenza tra “abilità tecnica” e “forza espressiva” richiamandosi alla sua esperienza di predicatore: per lui l’artista non deve curarsi nel dipingere della conformità del suo stile alle regole dell’Accademia e per questo sarà accusato di non saper dipingere.

Lo studio dei colori

Studia la teoria dei colori complementari, la tavolozza chiara e luminosa degli Impressionisti e di Monet che vede come astrazioni formali, teme che la tavolozza chiara diminuisca la forza del quadro, difende una scala cromatica scura, i toni decisi e densi che più si attengono a una realtà dura, contadina, di terre faticosamente lavorate: cioè il colore si deve raccordare allo spirito e alla realtà fisica rappresentata, ne deve essere il simbolo.

Così arriva a compiere l’opera più importante e significativa di questi anni I mangiatori di patate, una scena di contadini attorno al desco in una povera casupola, preparata con decine di disegni e studi ad olio di teste, ripresa in tre successive versioni e in una litografia. Qui la ricerca di un realismo ambientale è compiuta, così anche la sintassi cromatica, portata al massimo di sintesi e di intensità. È un quadro (in ognuna delle versioni) aspro e crudo, di straziante bellezza per l’accordo tra assoluta verità di sentimento e assoluta schiettezza dell’espressione. È chiara la denuncia di Van Gogh, chi vuole vedere contadini all’acqua di rose non lo guarda nemmeno. Egli in questa opera dà scrupolosamente forma alla idea che la gente al lume di candela, mangia le patate con le mani, e mette le mani con cui ha lavorato la terra nel piatto, esalta cioè il lavoro manuale e il cibo guadagnato onestamente

Vincent Van Gogh, I mangiatori di patate, 1885

La scoperta delle stampe giapponesi e Parigi

Tra il 1885 e il 1886 passa un duro inverno ad Anversa tra difficoltà economiche e continue delusioni e insuccessi sia all’Accademia sia nei circoli di disegno che frequenta: si deve considerare che da vivente ha venduto un solo quadro e che di fatto economicamente lo ha sempre aiutato il fratello Theo.

Dai Diari di Zola e di De Goncourt scopre il gusto per le stampe giapponesi e ne orna le pareti del suo studio e copia nei musei i quadri di Rubens: mutua così dai giapponesi la sintesi dinamica del segno nello spazio e da Rubens la verità espressiva del colore puro, criteri che saranno la base da cui si diparte la sua opera più matura.

Nel marzo 1886 giunge a Parigi, non conosce dal vero le opere degli impressionisti ma è a conoscenza di quale azione rivoluzionaria antiaccademica abbiano compito, degli scandali e delle polemiche che ne erano nate. Van Gogh non si è formato nella battaglia degli atelier, dei caffè letterari o dei cenacoli artistici di Parigi, Londra o Monaco ma nelle capanne del Brabante, nei circoli ristretti dell’Aia e di Anversa e possiede una cultura letteraria, filosofica e di storia dell’arte vastissima, ha una autonoma coscienza dei moderni principi dell’espressione pittorica, piega le teorie alla natura e al proprio temperamento: l’esplosione della luce e la vertigine cromatica nasceranno nella sua opera da questo insopprimibile rapporto con la realtà della vita, così come prima era nata l’atmosfera cupa, i bagliori freddi, il disegno spezzato a masse.

Studia approfonditamente gli impressionisti, arriva ad una schiarita tonale, ad applicare il divisionismo, le stampe giapponesi, la sintesi dei colori di Gauguin. Nei quadri del 1886 e 1887 si evince come l’uso del pointillisme di Seurat, della fusione tonale luminosa, della punteggiatura cromatica, della pennellata rapida e sciolta, delle profilature e zonature alla giapponese si mescoli con zone a impasto ancora naturalistico: sono tutti elementi che vengono sperimentati e sottomessi ad una prepotente ansia di esprimere in maniera decisa il carattere e creano opere di una inconfondibile originalità e di una tensione drammatica nel linguaggio poetico che le isolano nel panorama del postimpressionismo.

Conosce giovani pittori con cui vorrebbe realizzare il suo sogno, di chiara origina evangelica, di una confraternita di artisti sotto lo stesso tetto con cui svolgere il lavoro in comune per una idea comune, come nella scuola di Barbizon: cosa che tentò con Gauguin e con Bernard, tuttavia Van Gogh è certo un compagno prezioso ma difficile, per la sua costante intransigenza estremistica che caratterizzerà ogni aspetto della sua vita e ogni sua idea, per la sua univoca “follia” per l’arte che si concretizza in una costante, snervante autocritica.

A Parigi conosce le invidie, le meschinità, i tradimenti degli artisti, la sordità dei mercati, la delusione di realizzare il suo sogno di una comunità di artisti, si deprime e pensa pure al suicidio ma lo salva il lavoro, la pittura. Scrive: “È meglio farsi del buon sangue che suicidarsi”.

La Provenza

Parte per il Sud, alla ricerca di un Giappone di casa, vuole lavorare da solo, tra gente semplice a contatto con la natura, in un ipotetico ideale monastico. Quando arriva ad Arles trova la Provenza ammantata di neve e vi riconosce il suo Giappone e la sua Olanda. Da questa particolare tensione simbolista nascono i capolavori quali I girasoli e Il caffè di notte.

Vincent Van Gogh, Il caffè di notte ad Arles, 1888

Sa di essere sulla strada giusta, invoca la compagnia di Gauguin nel quale vede un maestro, un uomo tutto istinto e intelligenza, violenza e dolcezza, che lo ha liberato del tutto nella libertà di espressione di fronte alla banalità dell’Accademia. Vorrebbe con se anche Seurat e Bernard per formare il cenacolo che sognava. Fa fare a Theo un contratto a Gauguin che lo porta ad Arles dove Vincent emozionato prepara la casa per accoglierlo. Nei due mesi di coabitazione sino al Natale 1888, mentre dipingevano gli stessi soggetti (il caffè di Arles, donne nella vigna, ritratti di donne in costume arlesiano), maturò la coscienza della sostanziale differenza tra loro, delle diverse visioni nell’arte, di come ognuno dei due ammirava fattori che l’altro detestava.

La crisi scoppia in un eccesso di follia: le discussioni continue, le incomprensioni sfociarono nella notte in cui Van Gogh si tagliò un orecchio e lo portò ad una persona perché lo consegnasse a Gauguin. La delusione e la tragedia non diminuiscono in Van Gogh la ammirazione per Gauguin e non si perdonò mai di aver distrutto la loro coabitazione ad Arles. Per lui il suo amico Gauguin che parte per le lontane isole sperdute negli oceani è l’umiliato, l’offeso che fugge da un mondo che non lo comprende per andare in cerca di una pace in un mondo primitivo; invece lui si sente il militante che resta, che lotta con l’arma della pittura; il suo orizzonte non è la condizione primitiva dell’uomo fuori dalla società moderna, ma la maturata cultura e sapienza, la coscienza artistica dei maestri giapponesi: è qui la ragione profonda del dissidio e del dramma tra i due artisti ad Arles.

Il “mestiere del pazzo”

Da questo momento per Van Gogh ha inizio la straziante alternanza di periodi di lucidità e di periodi di follia, alla lotta per la pittura si sostituisce la lotta contro la malattia mentale. Viene nuovamente internato nel febbraio 1889, le sue crisi allarmano i cittadini; lui spera che siano periodi superabili ma pian piano si rassegna al suo “mestiere di pazzo”. Nei quattro mesi d’internato all’ospedale dipinge molto, disegni con un tratto scattante, conciso, colori fortissimi e nelle zone contrastanti. Dipinge sedie vuote, in ricordo del suo amico e della sua solitudine.

Nel mese di maggio lascia la clinica, per andare in una casa di cura a Saint Remy, non vuole più essere di peso economico per il fratello che nel frattempo si era sposato; qui tra una crisi e l’altra dipinge quadri di una esaltante sinfonia di colori. Nasce qui la sua “linea ondosa” che comunica un sentimento di sofferenza esistenziale, nei fiori, nei campi di grano, nei cipressi, quadri come Notte stellata con cipresso o come Passeggiata di sera.

Vincent Van Gogh, Notte stellata con cipresso , 1889

Nel mese di novembre viene invitato ad esporre al salone del XX secolo a Bruxelles e qui sarà venduto il primo e unico quadro che riuscì a vendere da vivente; nel marzo 1890, partecipa a Parigi ad una mostra di pittori indipendenti con alcune opere che Monet sostenne essere le migliori della mostra.

A maggio parte per Parigi dove lo prende in cura il dottor Gachet, artista dilettante e amico di artisti, uomo geniale. Van Gogh fa settanta dipinti in due mesi, la tensione, le preoccupazioni fanno maturare in lui la crisi definitiva. I suoi quadri giungono ad una essenzialità mai raggiunta prima: opere che hanno una foga violenta, un ritmo a strappi, note cromatiche altissime; le pennellate non sono più ondose, ma rotte in segmenti aspri, i colori sembrano venire da profondità boreali. I ritratti che farà, quale quello del dottor Gachet, hanno tutti una espressione di malinconia, che spesso a chi guarda il quadro appare come una smorfia.

Van Gogh ritrova l’ansia primordiale della sua follia religiosa. Uno degli ultimi quadri, Campo di grano con volo di corvi, ha la furia definitiva di un grido, di una disperazione che solo gli artisti nordici quali Munch hanno saputo esprimere. Scriveva: “Solo in questo modo bisognerebbe dipingere. Solo così ci si può rendere conto, rispetto ai ritratti calmi degli antichi, come i nostri devono avere l’espressione della passione, e come dell’attesa, e come di un grido”. La poetica del realismo espressionista non ha più trovato una esposizione tanto chiara, limpida e precisa.

Vincent van Gogh, Campo di grano con volo di corvi, 1890

Il 27 luglio scrive l’ultima lettera al fratello Theo, “Nel mio lavoro ci rischio la vita e la mia ragione si è consumata per questo”, poi va nei campi e si spara un colpo al petto; muore due giorni dopo sereno tra le braccia del fratello, a 37 anni. Lascia una lezione di poesia e di stile che nessun artista moderno ha potuto ignorare sino ad oggi.

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