Le Virgole, un appuntamento estemporaneo fra chi ama scrivere e chi ama leggere.


E’ tardi questa sera, il sole sta per calare dietro alle vette.

Eppure so che mi stai aspettando, come ogni giorno, ormai da mesi, forse anni e nemmeno me ne sono accorto, ma non importa. Prendo il cappello, quello di panno marron, ed esco.

Il vento si sta facendo fresco e devo alzare il bavero del cappotto, ma è la mia passeggiata serale, prima del rientro, prima della cena, prima del riposo… e me la voglio godere tutta, vento o pioggia che sia.

Cammino piano e mille pensieri mi affollano di colpo la mente, tutte cose che durante il giorno, lavorando, si erano nascoste in qualche anfratto ed ora, libere, escono, scappano ovunque nella mia testa e fanno viaggi in luoghi che nemmeno credevo raggiungibili. Sono come un domatore e mi tocca tenere a bada tutte quelle fiere in procinto di assalirmi. In realtà ci sono abituato e so benissimo che nessuno di quei pensieri mi ferirebbe mai, ma è come un gioco. Anzi, spesso trovo soluzioni a problemi che mi sembravano, fino a poco prima, insormontabili.

Ed è così che il tempo vola, che cammino senza rendermi conto della strada fatta, ma ogni volta, appena prima di arrivare all’incrocio con la tua via è come se tornassi in me.

Sei lì, poco lontano e già ti scorgo, a destra lungo il marciapiede, più o meno a metà della via. Il tuo grande occhio a metà della fronte è aperto, come sempre ormai, e mi scruti da lontano, mi aspetti, forse con un po’ di ansia, e un pochino altezzoso per essere ormai un vecchio piccolo albergo abbandonato a se stesso.

Ricordo la vita che entrava ed usciva frenetica da te, l’andirivieni di persone cariche di valigie, cappelliere colorate e bauli un tempo, ed ora zaini e trolley con lo stridio delle loro ruote sul selciato davanti all’ingresso, poi le risate e le corse dei bambini, accompagnate dalle urla dei genitori che richiamavano all’ordine, porte che si aprivano e chiudevano, serrande e tende colorate, il profumo dei cibi durante il servizio di pranzo e cena, e tu… pieno di gioia.

Io passavo di lì anche il giorno in cui c’è stata la grande chiusura e il trasloco nel nuovo hotel sulla piazza cittadina.

Era un via-vai di persone che entravano a mani vuote ed uscivano cariche di pacchi e mobilia, in silenzio, velocemente, quasi dovessero scappare chissà dove.

Nessuno se ne accorgeva, ma io la sentivo l’ansia che emanavi, il fremere quasi percepibile dei tuoi muri, i sussulti ad ogni passo, mentre venivi svuotato, ed alzando gli occhi, per la prima volta, mi sono accorto che mi guardavi col tuo grande occhio preoccupato.

Il giorno successivo è cominciato il silenzio e tu, pian piano, ti sei rattristato, i tuoi muri hanno perso colore, col tempo si sono scrostati lasciando spazio a tacconi di intonaco che cadevano a terra col primo vento forte. La tua grande bocca, che prima sembrava un sorriso sulla vita di chi la attraversava, era ormai chiusa, serrata, e la piccola tettoia sopra di essa era come un vecchio baffo ingrigito dal tempo e dalla solitudine.

Lateralmente due orecchie verdi, ante di legno un tempo aperte sul mondo dalle grandi sale da pranzo, ora non ascoltavano più e parevano essere sorde ad ogni richiamo mentre il cartello che vi avevano applicato sopra non accennava ad essere tolto.

“VENDESI”!

Sembra una sentenza di morte, e forse lo è, visto che da allora nessuno è mai più passato, neppure per una visita.

Nella fretta, i vecchi proprietari, hanno scordato qualche vaso di piante grasse a terra, davanti all’entrata, ed io, ogni tanto, porto con me una bottiglia con un po’ d’acqua e mi chino ad annaffiare le piantine. Loro resistono, ignare del tempo e del silenzio, ogni tanto buttano fuori un fiore colorato e restano l’unico segno di una vita passata.

Un tendone rosso è rimasto appeso all’interno del tuo grande occhio: forse, però, non se lo sono dimenticato, ma è stato lasciato lì per confortarti, per asciugarti una lacrima, come ultimo gesto gentile di chi ha vissuto in te, di chi hai protetto e cresciuto.

Io posso solo farti visita durante le mie passeggiate solitarie, posso venire a tenerti compagnia, sedendomi come ogni giorno sui tuoi gradini e raccontandoti storie, cose che vedo e che sento, avventure che vivo o che spero arrivino.

Qualche volta poso una mano sul tuo muro o ci appoggio la schiena, fregandomene del segno bianco di intonaco che resta sopra la giacca quando mi rialzo: so che ti fa piacere, che ami ancora quel contatto e a me, in fondo, non costa nulla.

E poi qualcosa te lo devo, tu mi ascolti attento e silenzioso; certe volte ti sento quasi sussultare o sorridere, come se ti conoscessi da sempre, come fossimo amici, come tu fossi vivo e potessi raccontarmi le mille storie che si sono avvicendate dentro e fuori da te e che tu, con occhio attento, arrabbiato a volte, magnanimo altre, hai osservato e fatto tue.

Si è fatto tardi davvero, ora.

Mi alzo lentamente, scuoto un poco la giacca, tanto per darle una sistemata, poi mi volto e ti osservo ancora: ti conosco troppo bene ormai e mi pare che tu possa cambiare “espressione” – so che è assurdo ciò che penso – tra quando arrivo e quando me ne vado. Prima, ad esempio, un poco del tuo vecchio smalto era tornato, mentre gli ultimi tiepidi raggi di sole ti lambivano appena, e guardandoti mentre arrivavo avevo forse notato un tuo sguardo più luminoso, mentre ora (ma forse è colpa del buio che ci ha sorpresi all’improvviso) mi sembri ancora più vecchio, caro piccolo alberghetto del corso, e appari triste, ingobbito sotto il peso degli anni e della solitudine.

Non preoccuparti, però, perché domani tornerò a farti compagnia, sul calare del giorno, e ad aggiungere particolari ai miei racconti, a volte veri, altre volte un po’ inventati.

E anche se temo di aver perso un pochino la lucidità, continuerò a pensare a te come ad un vecchio caro amico, brontolone e paziente, almeno fino a quando non ti vedrò rifiorire di vita, messo a nuovo da un giovane pieno di sogni, pronto a vivere con te tutto ciò che hai ancora da dare, pronto a darti quel giusto posto che ancora ti spetta, in questa piccola cittadina ai piedi dei monti.


Monica Gorret è nata e vive ad Aosta, dove è occupata presso l’amministrazione regionale. Da sempre appassionata di scrittura, nel 2018 ha pubblicato il romanzo breve Stava tutto in una gerla (Giovannelli). Con i suoi racconti ha ottenuto numerosi premi in diversi concorsi letterari; questo racconto ha ottenuto  il primo posto nella sesta edizione 2021 del concorso Incrociamo le penne.


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