Lo smarrimento dell’arte

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la riflessione sugli orrori che essa aveva generato alimenta un clima di angoscia per il venire meno di certezze che si credevano incrollabili. Si diffonde la sfiducia nella capacità degli esseri umani di continuare sulla strada delle magnifiche sorti e progressive. Nella letteratura e nella filosofia questo disagio e il dramma che ne deriva trovano forma compiuta nella filosofia esistenzialista, di cui Jean Paul Sartre, Albert Camus e Simone di Beauvoir sono i principali esponenti in questo periodo.

Le arti figurative, e la pittura in particolare, sperimentano quella che il filosofo Edmund Husserl ha definito caduta delle finalità e vengono interessate da profondi cambiamenti. L’arte non riesce più ad essere un discorso, una relazione, non si inquadra più in una estetica e in una filosofia. Ora l’arte, che tutta la tradizione culturale precedente aveva identificato con il rispetto della forma, viene a trovarsi in una società che svaluta la forma e non riconosce più nel suo linguaggio il modo essenziale di comunicare tra umani.

L’arte non ha più un ruolo come lo aveva avuto nella civiltà della conoscenza, e quindi rinuncia al linguaggio per ridurre tutto il suo essere al puro atto del fare.

L’informale

L’informale, pertanto, non si può considerare una libera scelta, una corrente artistica, ma uno stato di crisi (la crisi dell’arte come scienza europea), una condizione necessitata e necessitante. È una pittura senza soggetto, senza riferimenti a idee platoniche, tantomeno alla figurazione geometrica. Si arriva a produrre sulle tele una trama di segni che solo in apparenza sono casuali, macchie, graffi, scolature di vernice sino a comporre una forma di scrittura automatica, simbolica e criptica: per molti è un grido di dolore (Burri), per altri un grido di rabbia e ribellione (Vedova), per altri ancora la gioia del fare.

Quello che di fatto cambia è il rapporto tra l’opera e l’artista: ora non conta più il risultato finale dell’agire del pittore, ma il momento, l’attimo della creazione, dell’azione (come nell’action painting di Pollock). Il concetto stesso di POETICA (FARE) prevale su quello della TEORIA e indica che ormai l’unico percorso per l’arte, l’unica sua giustificazione è l’intenzionalità operativa. L’arte esiste perché FA, non dice cosa fa, non dice cosa voglia fare per il mondo: sta al mondo dare un senso a quello che l’arte fa. Perché l’unica cosa che un artista può fare è esistere.

Lucio Fontana

Lucio Fontana nel 1947, nel primo Manifesto dello spazialismo, scriveva “non è più l’arte ad essere immortale bensì il gesto ad essere eterno, così se è inevitabile il disfacimento fisico dell’opera, il gesto invece continua eternamente a rappresentare una possibilità per lo spirito umano”; cioè, l’opera si rovina nel tempo ma la forza intellettuale del gesto creativo rimane.

Volendo in maniera sintetica semplificare si può dire che con Fontana si approfondisce il “GESTO”, con Capogrossi la “POETICA DEL SEGNO”, con Burri quella della “MATERIA”. Se in Burri la tela non è più il supporto neutro sul quale ospitare la finzione pittorica, ma diviene materia messa in scena e resa fenomeno espressivo, in Fontana si scardina del tutto il concetto di spazialità: egli rompe il confine tra “il dentro e il fuori” dell’opera.

Approfondisci: Burri e il grande cretto di Gibellina

I buchi: La Fine di Dio

Nel 1949 Fontana inizia a perforare le tele, prima con vortici di buchi e poi con sequenze di buchi organizzati secondo ritmiche più regolari. I buchi non sono solo elementi grafici sulla tela, hanno un significato prettamente “spaziale”, sono vere e proprie aperture verso uno spazio ulteriore: dal buco entra la luce dell’ambiente, si realizza lo scambio ed essa passa dal foro sul davanti al retro del dipinto, alludendo così alla terza dimensione che la superficie piatta della tela non permette.

È chiaro che il gesto dell’artista non può più definirsi pittorico o scultoreo, ma tende a definirsi come un “ATTO DI CONOSCENZA”; non a caso per queste opere usa tele ovali, che richiamano l’uovo da cui nasce la vita, e non a caso si chiamano Concetto spaziale. La fine di Dio: se l’arte in quanto qualità sublime degli esseri umani che nella sublimazione tendono a Dio è morta, allora anche Dio è morto, quindi siamo di fronte alla Fine di Dio. Dio finisce in questo spazio che si rompe, che perde la sua armonia tradizionale eppure mantiene ancora l’equilibrio della forma. Dio è ancora visibile nel dietro che sì intravede negli squarci. Una fine che non finisce di finire.

I tagli: le Attese

Nel 1958 Fontana passa dalla serie dei buchi alla serie dei tagli con opere titolate Concetto spaziale. Attesa (o Attese, a seconda del numero dei tagli), dove, ancora una volta, il nome non è casuale: la superficie piatta della tela viene scardinata da colpi di lama, in cui lo spazio e il gesto sono immortalati nella versione più assoluta in una dimensione sospesa e silenziosa, appunto di “attesa”.

Il taglio, gesto di distruzione, non è una semplice rasoiata o una negazione dell’arte, ma nella sua posizione, nella sua lunghezza, nel suo numero, Fontana inserisce una attenta scelta di espressione formale e poetica: la tela è un vincolo inaccettabile per un artista in un mondo in cui le certezze sono crollate e che si sta rivoluzionando da un punto di vista economico, culturale e sociale.

Con il taglio io spacco la tela, la sfondo, la squarcio e faccio passare l’aria, la luce, così accedo alla terza dimensione, che ora è sulla tela, davanti, dentro e dietro di essa. Oltre quel taglio posso mettere le mie angosce, le mie speranze, i miei sogni. La tela diventa come uno schermo: se ti ci trovi di fronte in un museo, la guardi e ti accorgi che l’occhio non guarda la tela (e per questo sono tutte monocromatiche), si dimentica della tela. Vorresti attraversare la fessura, passarci dentro, accedere ad uno spazio nuovo che va al di là della superficie. Cosa c’è oltre? Il mistero dell’arte è alludere a quell’oltre che non possiamo ancora sperimentare. Il taglio rappresenta un concetto, come dice il titolo, e attraverso esso, spiegava l’artista, passa l’istante.

È solo una provocazione o mancanza di talento artistico?

Come abbiamo visto il taglio nella tela fatto da Fontana è un gesto deciso, minimo, ma dietro il quale c’è un percorso intellettuale profondo, che è la parte più importante dell’opera: dopo che con le avanguardie artistiche dell’inizio del Novecento sono saltati tutti i punti fermi della pittura di ogni epoca (dalla prospettiva all’anatomia, dalle proporzioni al chiaroscuro, dal rapporto figura-sfondo alla presenza di figure riconoscibili), la tela è l’unica che non è mai stata messa in discussione. È sempre lì, è sempre un piano su cui agire, anche se solo con macchie e linee. Fontana decide di andare oltre, di penetrare nello spazio pittorico fisicamente, lacerandola. Creando, come dice Fontana stesso “un varco fisico … in cui lo spettatore entra nell’opera d’arte e vive con tutta l’esperienza psicosensoriale”.

Quindi questo suo gesto è la conclusione di una meditazione profonda, coerente e significativa, eppure è uno dei gesti artistici più controversi della storia dell’arte: egli è stato spesso tacciato di essere uno che faceva solo finta di essere un artista e, in definitiva, di essere privo di talento artistico. Invece, egli sapeva utilizzare bene le tecniche tradizionali ed era capace di realizzare sculture e disegni assolutamente comprensibili e magistralmente compiuti, come quelli riportati di seguito:

Ma questa è arte? Posso farlo anch’io!

Tralasciando il fatto che quando si dice “questo lo so fare anch’io” vuol dire che lo si sa solo rifare, altrimenti lo si sarebbe già fatto prima, la vera domanda da porsi è: “sono sicuro di essere capace di ripensare l’arte in modo così radicale?”. L’importante non è il taglio, ma tutto quello che c’è dietro e prima del taglio e che è il vero momento artistico.


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