Il Trattato di Pace di Parigi

Con il Trattato di Pace di Parigi firmato il 10 febbraio 1947 l’Italia cedette alla Jugoslavia del maresciallo Tito vasti territori dell’Istria, della Dalmazia e di gran parte della Venezia Giulia (tra cui Capodistria, Fiume, Pola, Zara, Spalato e Ragusa), quale risarcimento per l’invasione perpetrata dalle truppe italiane nel 1941 durante la Seconda Guerra Mondiale. Circa 300 mila persone, per sfuggire alla pulizia etnica, scelsero di lasciare le loro terre natali destinate a non essere più italiane. Abbandonarono i propri beni per avventurarsi verso un’Italia disastrata dalla guerra piuttosto che restare, estranei, nella Jugoslavia di Tito, in cui sarebbero andati incontro a violenze e soprusi. E’ questo il dramma dell’esodo istriano giuliano-dalmata, una pagina dolorosa della storia italiana.

Nel Porto Vecchio di Trieste

Nel Porto Vecchio di Trieste c’è un magazzino dove il tempo sembra essersi fermato, le mura sono consumate dalla salsedine e dall’umidità ma, sulla facciata, si legge ancora il numero “18”: non è un  monumento commemorativo come ci si potrebbe immaginare, ma un magazzino con all’interno tante piccole testimonianze che appartengono alla quotidianità. Sedie accatastate l’una all’altra, macchine da cucire, fornelli, letti, armadi, materassi, oggetti d’uso quotidiano, icone religiose, fotografie, giocattoli, lettere e quaderni. Tutti accomunati da due parole: “Servizio esodo”.

Sono le suppellettili e le masserizie che i profughi istriani avevano portato con sé abbandonando le loro case con l’illusione di riprendere la propria vita da dove l’avevano lasciata e dalle quali erano stati costretti a distaccarsi perché nei campi profughi in cui erano stipati non c’era spazio, oppure perché preferirono emigrare all’estero. Lasciarono le loro proprietà, in attesa di rientrarne in possesso in futuro. Nessuno di loro è mai tornato a ritirare quanto custodito all’interno del Magazzino 18.

Il Magazzino 18 riveste una duplice valenza testimoniale: da una parte quella del fatto specifico (l’esodo dei giuliano-dalmati del dopoguerra) e dall’altra quella più generica, ma più universale, dell’idea di esodo. Il Magazzino 18 è la perfetta fotografia della quotidianità di una società che, come Pompei, si interrompe in un preciso momento storico, quello dell’esodo, con l’ultimo oggetto portato dall’ultimo esule, depositato e mai ritirato, e dove non c’è nulla del giorno dopo. 

10 febbraio – Giorno del ricordo

Il 30 marzo del 2004 il Parlamento Italiano ha approvato la legge 92 che ha istituito la solennità civile nazionale, celebrata il 10 febbraio di ogni anno, “quale “Giorno del ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.

Il 10 febbraio 2018 nell’ambito delle celebrazioni del Giorno del Ricordo, la rete televisiva Sky trasmise un documentario che parlava di quattrocento grammi di chiodi coi quali gli esuli dovevano costruire le casse di legno per portarsi via le suppellettili personali; tutto quello che non entrava nelle casse lo dovevano lasciare e veniva ammucchiato nel Magazzino 18.

La visione del documentario ha ispirato alla poetessa apriliana Veruska Vertuani la composizione di una lirica che ha conseguito il primo premio fra le 400 poesie partecipanti all’XI edizione 2018 del concorso “Invito alla poesia” organizzato dall’Associazione “Poesia e Solidarietà” di Trieste. Il componimento, intitolato “Magazzino diciotto (le foibe)” , è stato donato dall’autrice all’I.R.C.I. – Istituto Regionale Per La Cultura Istriana di Trieste.

La poesia è incentrata sui quattrocento grammi di chiodi, frase che ricorre in modo martellante e termina con la speranza che gli eredi degli esuli possano rivendicare le masserizie degli avi.

Magazzino 18 (le foibe)

Quattrocentogrammi di chiodi
uno alla volta tra le dita
non per appendere campane alla domenica
né giorni di festa alla parete.
Valgono il peso di quattrocentogrammi di chiodi
i tuoi affetti da imballare
ferro che picchi in ossi di legno
marci e sdentati, come la voce dei passi
in ordinata disperazione.
Trovi di tutto nel magazzino diciotto
rovi di sedie mobili sull’attenti
manciate di quattrocentogrammi di chiodi
con la fretta di sprangare porte e finestre,
correre
che il corpo è un avanzo, buono per domani
e l’anima tornerai a prenderla
nella stretta di un bambino a un fiore
tuo figlio o chissà, nipote
quando il cielo è ruggine di chiodi, in un giorno di festa
alla parete del magazzino diciotto.


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